Menu principale:
2007-2012 Poesia degli indumenti & Co.
DUE PASSI SOTTO LA LUNA
Due ciabatte con una margherita bianca sulla tomaia. Adagiate dolcemente, con meticolosa cura, sopra un tappeto di steli . Accarezzate dal chiarore della luna. Due ciabatte che stanno lì, per gioco magari. E perché qualcuno, pur avendole dismesse, non si rassegna a staccarsene e vuole perciò offrire ad esse una nuova possibilità, una nuova ragione per continuare ad esistere.’ il fantastico scenario dell’opera (“Due passi sotto la luna” appunto) che dà non solo il titolo ma anche il senso alla rassegna monografica, nella quale Stefania Di Filippo presenta una limitata raccolta di tecniche miste, ascrivibili al triennio 2007-2010 e consistenti in una serie di oli e smalti su tela con talune inserzioni di indumenti personali. Diciamo limitata con riferimento al numero dei lavori, ma l’importanza che essa riveste per la conoscenza di un lato fondamentale della personalità dell’artista è decisamente più grande. Questi lavori, che rappresentano in realtà una nicchia seppure significativa nella ricerca dell'artista, ne svelano il lato più intimo e più vero, vale a dire l’aspetto giocoso, incline alla giocondità, al riso non sfiorato da conflitti interiori. dato da sottolineare è la peculiare genesi che li contraddistingue. Genesi che va innanzitutto individuata in un particolare automatismo combinatorio, grazie al quale l’artista associa in maniera casuale dati percettivi sbirciati o colti nei luoghi più disparati, come ad esempio la foto di una rivista di moda, una scritta che incuriosisce, un’immagine pubblicitaria, la copertina ammiccante di un libro.’ evidente come tale automatismo richiami, sia pure formalmente, la casualità caotica e il prelievo di oggetti senza evidenti nessi semantici tipico dell’esperienza dada. Del resto, i sintagmi linguistici inseriti dalla Di Filippo nel contesto, senza un’apparente connessione con gli altri dati figurativi, parrebbero avvalorare tale accostamento. Ma in realtà qualche affinità possiamo registrarla solo con alcuni esponenti del “New Dada” americano, e in particolare con i “combine paintings” del primo Rauschenberg, dove l’artista cerca una sintesi magmatica della propria vita, assemblando fatti e oggetti della quotidianità in modo tale che ogni frammento entri a far parte di un racconto, di una vita.’opera della Di Filippo interviene però anche una matrice fortemente ludica. Il gioco e nient’altro che il gioco è la vera molla che innesca una serie di rimandi incrociati, sul piano simbolico, tra i dati percepiti e i contenuti del vissuto sedimentati nella memoria, tra questi e gli echi che emergono dall’inconscio profondo sotto forma di fantasie rimaste allo stato dormiente, o di sogni gelosamente occultati e coccolati alla stregua di quanto si fa con gli oggetti più cari che riponiamo in un cassetto segreto. Arte come gioco, dunque. Dettata dal solo piacere di giocare. Perché in fondo tra arte e gioco, come affermava Freud nel saggio “Il poeta e la fantasia” del 1907, c’è una sostanziale affinità, in quanto entrambi costituiscono un regno intermedio tra la fantasia e la realtà ed hanno altresì un ancoraggio ad oggetti tangibili.
Ma ciò che veramente connota tali lavori è la forte iconicità conferita ad una presenza oggettuale, ovvero quella di un indumento. Lo stesso indumento che fu a suo tempo dismesso e poi casualmente ritrovato a seguito di un “cambio di stagione” assume ora una forte valenza simbolica. Ecco allora, solo per citare qualche esempio, la canottierina a vivaci tinte nel caso di “Una sera di mezza estate”, la maglietta fucsia in “Lavori in corso”, la camicia estiva a fiori rossi in “Gioia di vivere”. Capi di vestiario a cui l’artista ha voluto restituire nuova vita, sottraendoli al destino perituro delle cose. Nei loro colori ridenti, che evocano immagini di innocente felicità, ha potuto ritrovare le emozioni, gli slanci dei momenti lirici. Se l’artista mostra di essere visceralmente legata ad essi da un amore tenero, è perché li sente parte di sé stessa, nido protettivo della propria intimità. Esattamente come fa la chiocciola, la quale si trascina la “casetta” sul dorso ovunque vada, per trovarvi riparo e protezione.
Gianni De Mattia